lunedì 28 settembre 2009

Secondo me...


L. B. ed E. T. discutono sul Fatto del 24 Settembre riguardo all’adattamento cinematografico della “Millennium Trilogy” di Stieg Larsson.
Dopo aver fatto a pezzi lo stile dello scrittore, seccamente definito “una scrittura asciutta da sceneggiatore” (come se il suo scopo fosse stato premeditatamente l’adattamento cinematografico dei romanzi), proseguono demolendo l’intera opera a partire da presupposti parziali e quantomeno opinabili.
Sono condivisibili, sulla base del gusto personale, la critica ad automatismo e prevedibilità di alcune situazioni descritte o all’uso di determinate metafore e accostamenti di immagini, ma i due giornalisti si spingono con un tonno tagliente, talvolta sarcastico e sempre di sufficienza, a banalizzare tutto il complesso narrativo:

Il mondo di Lisbeth […] si costruisce per dettagli improntati in una medietà da
scrittura automatica, standard, come gli arredi dell’Ikea; talvolta questa
scrittura media, quando non abbastanza sorvegliata, da elemento funzionale si
trasforma in mera sciocchezza, […]
In tono didascalico, rivelano poi all’ingenuo lettore medio la struttura “elementare” del thriller, basata sui “tre livelli d’intreccio” classici:

una giovane hacker e un affermato giornalista collaborano per svelare dei
misteri e sventare dei complotti (primo livello: i problemi concreti da
risolvere); questi due protagonisti hanno avuto un’esistenza tormentata segnata
da vicissitudini e traumi (secondo livello: i caratteri da plasmare); inoltre,
fra di loro si crea un controverso legame affettivo (terzo livello: la relazione
da sviluppare).
Ma qual è il punto?? Probabilmente buona parte di quanto affermato è fondata, nonché condivisibile…e allora?
Il punto è che la prosa non dovrebbe essere necessariamente tenuta ad avere un valore artistico e letterario: non dimentichiamo che uno degli scopi principali del romanzo è l’intrattenimento. Ci sono libri che usano le parole per aprire mondi, che stabiliscono una relazione dinamica con il lettore, che dialogano con lui e lo costringono ad interagire con la pagina per svelarne significati reconditi, estrarre uno (o svariati) messaggi, rendendolo così parte attiva e indispensabile alla buona riuscita dell’opera. Ci sono libri, quindi, in cui le parole sono protagoniste, con tutto l’impegno, la difficoltà e la responsabilità che ciò comporta non solo per l’autore, ma anche per il lettore. E ci sono libri in cui, invece, il linguaggio si accontenta di essere un veicolo, in cui la parola si prostituisce all’azione, divenendo semplicemente il mezzo che permette alla storia di snodarsi nero su bianco lungo la pagina, senza pretendere di voler comunicare o nascondere messaggi profondi e stratificati, ma con il solo scopo di descrivere, informare, intrattenere.
A tal proposito, non sarebbe forse il caso di lasciare al lettore la possibilità di scegliere di addentarsi in una storia avvincente, dal ritmo incalzante, ricca di colpi di scena e personaggi ben costruiti, narrata in modo semplice, scorrevole, lineare (se questo era l’intento con cui si è avvicinato/a allo scaffale della libreria)?
Sulla base di questi presupposti, la critica di L. B. ed E. T. risulta a dir poco fuori luogo, in quanto svilisce l’opera di Larsson attribuendole pretese che forse nemmeno lo scrittore stesso ha avuto (o tantomeno espresso) e spacciando opinioni del tutto personali come difetti strutturali- stilistici oggettivi dei romanzi.

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