giovedì 12 novembre 2009

ossessioni della buonanotte

“Penso dunque sono”(?)…rifletto, analizzo, cerco di imbrigliare ciò che mi gira intorno in categorie addomesticabili, quindi comprensibili e meno spaventose.
Ragiono per tentare di comprendere chi e cosa mi circonda, aspiro ad ideali tanto più grandi quanto più distanti…e distolgo lo sguardo quando davanti agli occhi si presenta l’oggetto della mia indignazione.
Mi affanno ad imbastire un filo logico che leghi la contraddizione dei miei vaneggiamenti, l’astratto, sfuggente (effimero?) di ciò che affolla…me. Lo spazio “dentro” che sembra potersi dilatare all’infinito, nell’universo inesauribile delle possibilità, di tutti i significati che mi do, che mi danno, che si possano immaginare.
Ma c’è uno spazio circoscrivibile, tangibile, a cui non posso dare forma a mio piacimento. E’ fuori, e appare inevitabilmente, impudicamente esposto ad ogni sguardo che per scelta o per sbaglio si trovi a posarvisi. E’ solo il veicolo, che dovrebbe dare voce a ciò che custodisce, che vorrebbe mostrare, come in uno specchio, il mondo che lo popola.
E’ necessario rimuovere l’involucro per scoprirne il contenuto?
Paul D. aveva trasformato il suo cuore in una scatoletta di tabacco per chiudere fuori tutto il dolore a cui l’esistenza l’aveva costretto. Per poter continuare a vivere quando la vita non era più stata sopportabile. Aveva dovuto tagliare fuori la sua anima per tornare alla casa in cui avrebbe trovato un altro corpo martoriato come il suo, ad accoglierlo in un abbraccio comprensivo e generoso, muto come il suo.
Biancaneve voleva diventare un fantasma, liberarsi dell’involucro per fluttuare indisturbata fra le correnti di una realtà a cui sentiva di non appartenere. Conoscere, fare esperienza dell’esperienza altrui, senza però sperimentarla direttamente. Trovare la verità senza passare per il corpo, abbandonato, immobile e ignaro, in una teca di vetro bagnata di lacrime e circondata di fiori. Esplorare con gli occhi chiusi gli abissi infiniti delle possibilità, viaggiare senza dover raggiungere una meta. Ma il principe l’ha svegliata.
Il buonsenso replicherebbe che il contatto con ciò che chiamiamo “realtà” (per ovvie esigenze di semplificazione e perché dare un nome dà l’illusione di padroneggiare, di possedere, e quindi di poter controllare) è inevitabile. Non possiamo essere (e dover essere o voler essere) come Paul D. o come Biancaneve perché, altrimenti, vivremmo a metà.
E’ meglio consumarsi o spegnersi e svanire? Rassegnarsi o spingere il sasso su per la montagna giorno dopo giorno, come Sisifo? Arrendersi all’evidenza o combattere disperatamente le battaglie già perse in partenza?

Chi tende continuamente ‘verso l’alto’ deve aspettarsi prima o poi d’essere colto dalla vertigine. Che cos’è la vertigine? Paura di cadere? […] La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura. […] Era questa la sua vertigine: sentiva un invito dolce (quasi gioioso) a rinunciare al destino e all’anima.



Chissà cosa direbbe Kundera se vedesse le sue parole così manipolate per trovare una giustificazione “autorevole” alle paure di un piccolo ego errante in cerca di risposte…?

mercoledì 14 ottobre 2009

...semplificazione?

Milano- Durante una tappa del “tuor matto e disperatissimo” alla-ricerca-dei-libri-per-la-tesi insieme ad un’amica, mi imbatto nella libreria Mondadori. Dato che l’autrice di cui mi devo occupare pubblica in Italia con Mondadori, abbiamo la brillante idea di entrare.
Tutto regolare: solita atmosfera da libreria, con annessi commesso dall’aria sufficiente-annoiata e piccola fila d’attesa davanti al box informazioni. Aspetto pazientemente il mio turno gettando occhiate furtive agli ultimi best-sellers esposti in bella vista (non azzardarti a comprare ancora un romanzo e concentrati sullo scopo per cui sei qui!), quando, finalmente, tocca a me. Prendo un bel respiro e chiedo tutto d’un fiato: “Avete i libri per ragazzi Jeanette Winterson”. Il commesso mi fissa, espressione un po’ ebete, occhi sgranati, tipo: ma-sei-sicura-che-questa-roba-esista-mai-sentito-nominare, e replica: “Per ragazzi no, ma dovrebbe esserci qualcosa”.
Silenzio. Lo fisso (ebbene?! Cosa?). Mi fissa. Mi arrendo: “Cosa?”. E lui, con tutta la naturalezza di questo mondo: “Prova a vedere nella sezione ‘Gay e Lesbo’”.
Incredulità e stupore. Sicura di aver capito male mi dirigo nella stanza attigua, in cui i libri sono catalogati per genere. Dunque…Fantasy…Gialli…Gay e Lesbo …Horror…aspetta…! “Gay e Lesbo”!?
Ebbene sì: questa sezione esiste davvero! E cosa dovrei aspettarmi di trovare? Oscar Wilde e Virginia Woolf? O devono essersi apertamente dichiarati per avere il privilegio di un posticino su questo scaffale!?

Scherzi a parte, trovo abominevole che (più o meno) brillanti voci della letteratura contemporanea debbano essere catalogati semplicemente per il loro orientamento sessuale, come se la loro opera andasse letta e interpretata solo con questa chiave, come se tutto ciò che hanno da dirci fosse ricollegabile all’omosessualità. Mi fa pensare a quando le donne erano costrette a scrivere sotto uno pseudonimo maschile perché il loro talento potesse far presa su un pubblico più ampio di quello delle casalinghe annoiate di buona famiglia. Cosa avrebbe perso il mondo se le cose non fossero cambiate? Quali talenti sarebbero passati inosservati a causa di subdoli giochi di potere e del pregiudizio di certi luoghi comuni?

E’ pericoloso categorizzare sulla base di un’unica caratteristica…

“For a lesbian is not considered a ‘real woman’. And yet in popular
thinking, there is only one essential difference between a lesbian and other
women: that of sexual orientation- which is to say, when you strip off all the
packaging, you must finally realise that the essence of being a ‘woman’ is to
get fucked by men”.
(Radicalesbians, The Woman Identified Woman,
1970’s)

Mi auguro che ricorrere a simili estremismi non debba più essere necessario, e che quello in cui sono incappata sia solo un episodio circoscritto di grossolanità e ingenua semplificazione.

martedì 29 settembre 2009

..."vaneggiamenti senza motivo e senza dignità"

La tragedia principale della mia vita è, come ogni tragedia, un’ironia del Destino. Rifiuto la vita reale come una condanna; rifiuto il sogno come una liberazione ignobile. Ma vivo la parte più sordida e più quotidiana della vita reale; e vivo la parte più intensa e più costante del sogno. Sono come uno schiavo che si ubriaca durante il riposo: due miserie in un unico corpo.
[Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine]


Seguendo il filo delle impressioni immediate e delle libere associazioni…

…la parola “sogno” designa ciò che attraversa il nostro cervello durante l’incoscienza del sonno, qualcosa di assolutamente incontrollabile, illogico, un’accozzaglia di immagini e frammenti, residui rimescolati e ricomposti in sequenza casuale, a cui taluni si affannano a trovare un significato per tentare di spiegare ciò che nella vita cosciente è incomprensibile, evanescente o inconsapevole.
Ma, al contempo, significa anche aspirazione futura, speranza, indica qualcosa che si desidera ardentemente realizzare, concretizzare, una sorta di pulsione verso la felicità, oppure qualcosa di irreale, di incredibile (…sogno o son desta?)
…e quanto altro ancora?
In un certo senso il sogno rappresenta il lato umano al di fuori dell’umana comprensione, e forse proprio per questo tante menti brillanti si sono addentrate nel suo mondo, che appartiene all’uomo, ma contemporaneamente sfugge al suo controllo e sembra avere vita propria.
Il sogno è l’imprevedibile, metafora del futuro che è una mappa ancora da scrivere, un itinerario da tracciare con immagini e aspettative tanto più velleitarie quanto meno percepiamo di poter intervenire per indirizzarne il percorso.
Con gli occhi chiusi, lontano dalla realtà apparente che è il mondo circostante e l’impressione di poter fuggire dalle leggi del tempo, forse, più di tutto, il sogno è illusione…

lunedì 28 settembre 2009

Secondo me...


L. B. ed E. T. discutono sul Fatto del 24 Settembre riguardo all’adattamento cinematografico della “Millennium Trilogy” di Stieg Larsson.
Dopo aver fatto a pezzi lo stile dello scrittore, seccamente definito “una scrittura asciutta da sceneggiatore” (come se il suo scopo fosse stato premeditatamente l’adattamento cinematografico dei romanzi), proseguono demolendo l’intera opera a partire da presupposti parziali e quantomeno opinabili.
Sono condivisibili, sulla base del gusto personale, la critica ad automatismo e prevedibilità di alcune situazioni descritte o all’uso di determinate metafore e accostamenti di immagini, ma i due giornalisti si spingono con un tonno tagliente, talvolta sarcastico e sempre di sufficienza, a banalizzare tutto il complesso narrativo:

Il mondo di Lisbeth […] si costruisce per dettagli improntati in una medietà da
scrittura automatica, standard, come gli arredi dell’Ikea; talvolta questa
scrittura media, quando non abbastanza sorvegliata, da elemento funzionale si
trasforma in mera sciocchezza, […]
In tono didascalico, rivelano poi all’ingenuo lettore medio la struttura “elementare” del thriller, basata sui “tre livelli d’intreccio” classici:

una giovane hacker e un affermato giornalista collaborano per svelare dei
misteri e sventare dei complotti (primo livello: i problemi concreti da
risolvere); questi due protagonisti hanno avuto un’esistenza tormentata segnata
da vicissitudini e traumi (secondo livello: i caratteri da plasmare); inoltre,
fra di loro si crea un controverso legame affettivo (terzo livello: la relazione
da sviluppare).
Ma qual è il punto?? Probabilmente buona parte di quanto affermato è fondata, nonché condivisibile…e allora?
Il punto è che la prosa non dovrebbe essere necessariamente tenuta ad avere un valore artistico e letterario: non dimentichiamo che uno degli scopi principali del romanzo è l’intrattenimento. Ci sono libri che usano le parole per aprire mondi, che stabiliscono una relazione dinamica con il lettore, che dialogano con lui e lo costringono ad interagire con la pagina per svelarne significati reconditi, estrarre uno (o svariati) messaggi, rendendolo così parte attiva e indispensabile alla buona riuscita dell’opera. Ci sono libri, quindi, in cui le parole sono protagoniste, con tutto l’impegno, la difficoltà e la responsabilità che ciò comporta non solo per l’autore, ma anche per il lettore. E ci sono libri in cui, invece, il linguaggio si accontenta di essere un veicolo, in cui la parola si prostituisce all’azione, divenendo semplicemente il mezzo che permette alla storia di snodarsi nero su bianco lungo la pagina, senza pretendere di voler comunicare o nascondere messaggi profondi e stratificati, ma con il solo scopo di descrivere, informare, intrattenere.
A tal proposito, non sarebbe forse il caso di lasciare al lettore la possibilità di scegliere di addentarsi in una storia avvincente, dal ritmo incalzante, ricca di colpi di scena e personaggi ben costruiti, narrata in modo semplice, scorrevole, lineare (se questo era l’intento con cui si è avvicinato/a allo scaffale della libreria)?
Sulla base di questi presupposti, la critica di L. B. ed E. T. risulta a dir poco fuori luogo, in quanto svilisce l’opera di Larsson attribuendole pretese che forse nemmeno lo scrittore stesso ha avuto (o tantomeno espresso) e spacciando opinioni del tutto personali come difetti strutturali- stilistici oggettivi dei romanzi.

sabato 26 settembre 2009

Thinking about my fairy...

Stava immobile sulla spiaggia, scrutando l’orizzonte. Non cercava con lo sguardo le sagome delle navi che apparivano di tanto in tanto in lontananza, di passaggio verso approdi che erano Altrove. E nemmeno seguiva il volo dei gabbiani, che si agitavano in stormi sulle increspature delle onde infrante dalla scogliera. Fissava invece il movimento delle nuvole cambiare ad ogni capriccio del vento, che le coglieva di sorpresa sospingendole in direzioni imprevedibili.
Riflettendo gli ultimi raggi del sole con il suo guscio lucido –ora sfavillante- la piccola conchiglia aspettava. Dura, impenetrabile in superficie, persino solida all’apparenza, abituata a sfidare i flussi e riflussi delle maree e ad esserne levigata, modellata, corrosa, resisteva imperterrita nel proteggere la fragile vita che si agitava dentro di lei, custode vigile del lento, impercettibile lavorio prezioso del suo grembo.
Eppure sarebbe bastato un nonnulla a ridurla in frantumi, rendendo vano il suo essere, il mondo e il motivo per cui aveva ragione di esistere: un passo incauto o volutamente crudele e la prima onda giunta a lambire la riva ne avrebbe disperso irrimediabilmente i frammenti.
Ma la piccola conchiglia restava lì, immobile, scrutando l’orizzonte e osservando il cielo poiché le nuvole, raccogliendo i sospiri del vento, le affidavano un messaggio da custodire gelosamente e poi trasmettere a quell’animo sognante che l’avesse colta e posata all’orecchio…

giovedì 24 settembre 2009

“Le storie sono sempre vere. Sono i fatti che vengono fraintesi”.(Jeanette Winterson)

Mettere nero su bianco le proprie storie…una scommessa rischiosa, un atto di coraggio. Catturare con le parole frammenti sconclusionati di pensieri, dar loro una forma, seguire un filo…e lasciarsi condurre ad una meta imprevedibile. Una sfida per chi scrive, non tanto per la paura dei giudizi, quanto piuttosto per la consapevolezza di avere aperto una finestra sulla propria realtà, sottoponendola così allo sguardo di altre realtà che se ne appropriano, investendola di significati incontrollabili. Ma proprio per questo anche un atto coraggioso, perché da vita a nuovi mondi…