martedì 29 settembre 2009

..."vaneggiamenti senza motivo e senza dignità"

La tragedia principale della mia vita è, come ogni tragedia, un’ironia del Destino. Rifiuto la vita reale come una condanna; rifiuto il sogno come una liberazione ignobile. Ma vivo la parte più sordida e più quotidiana della vita reale; e vivo la parte più intensa e più costante del sogno. Sono come uno schiavo che si ubriaca durante il riposo: due miserie in un unico corpo.
[Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine]


Seguendo il filo delle impressioni immediate e delle libere associazioni…

…la parola “sogno” designa ciò che attraversa il nostro cervello durante l’incoscienza del sonno, qualcosa di assolutamente incontrollabile, illogico, un’accozzaglia di immagini e frammenti, residui rimescolati e ricomposti in sequenza casuale, a cui taluni si affannano a trovare un significato per tentare di spiegare ciò che nella vita cosciente è incomprensibile, evanescente o inconsapevole.
Ma, al contempo, significa anche aspirazione futura, speranza, indica qualcosa che si desidera ardentemente realizzare, concretizzare, una sorta di pulsione verso la felicità, oppure qualcosa di irreale, di incredibile (…sogno o son desta?)
…e quanto altro ancora?
In un certo senso il sogno rappresenta il lato umano al di fuori dell’umana comprensione, e forse proprio per questo tante menti brillanti si sono addentrate nel suo mondo, che appartiene all’uomo, ma contemporaneamente sfugge al suo controllo e sembra avere vita propria.
Il sogno è l’imprevedibile, metafora del futuro che è una mappa ancora da scrivere, un itinerario da tracciare con immagini e aspettative tanto più velleitarie quanto meno percepiamo di poter intervenire per indirizzarne il percorso.
Con gli occhi chiusi, lontano dalla realtà apparente che è il mondo circostante e l’impressione di poter fuggire dalle leggi del tempo, forse, più di tutto, il sogno è illusione…

lunedì 28 settembre 2009

Secondo me...


L. B. ed E. T. discutono sul Fatto del 24 Settembre riguardo all’adattamento cinematografico della “Millennium Trilogy” di Stieg Larsson.
Dopo aver fatto a pezzi lo stile dello scrittore, seccamente definito “una scrittura asciutta da sceneggiatore” (come se il suo scopo fosse stato premeditatamente l’adattamento cinematografico dei romanzi), proseguono demolendo l’intera opera a partire da presupposti parziali e quantomeno opinabili.
Sono condivisibili, sulla base del gusto personale, la critica ad automatismo e prevedibilità di alcune situazioni descritte o all’uso di determinate metafore e accostamenti di immagini, ma i due giornalisti si spingono con un tonno tagliente, talvolta sarcastico e sempre di sufficienza, a banalizzare tutto il complesso narrativo:

Il mondo di Lisbeth […] si costruisce per dettagli improntati in una medietà da
scrittura automatica, standard, come gli arredi dell’Ikea; talvolta questa
scrittura media, quando non abbastanza sorvegliata, da elemento funzionale si
trasforma in mera sciocchezza, […]
In tono didascalico, rivelano poi all’ingenuo lettore medio la struttura “elementare” del thriller, basata sui “tre livelli d’intreccio” classici:

una giovane hacker e un affermato giornalista collaborano per svelare dei
misteri e sventare dei complotti (primo livello: i problemi concreti da
risolvere); questi due protagonisti hanno avuto un’esistenza tormentata segnata
da vicissitudini e traumi (secondo livello: i caratteri da plasmare); inoltre,
fra di loro si crea un controverso legame affettivo (terzo livello: la relazione
da sviluppare).
Ma qual è il punto?? Probabilmente buona parte di quanto affermato è fondata, nonché condivisibile…e allora?
Il punto è che la prosa non dovrebbe essere necessariamente tenuta ad avere un valore artistico e letterario: non dimentichiamo che uno degli scopi principali del romanzo è l’intrattenimento. Ci sono libri che usano le parole per aprire mondi, che stabiliscono una relazione dinamica con il lettore, che dialogano con lui e lo costringono ad interagire con la pagina per svelarne significati reconditi, estrarre uno (o svariati) messaggi, rendendolo così parte attiva e indispensabile alla buona riuscita dell’opera. Ci sono libri, quindi, in cui le parole sono protagoniste, con tutto l’impegno, la difficoltà e la responsabilità che ciò comporta non solo per l’autore, ma anche per il lettore. E ci sono libri in cui, invece, il linguaggio si accontenta di essere un veicolo, in cui la parola si prostituisce all’azione, divenendo semplicemente il mezzo che permette alla storia di snodarsi nero su bianco lungo la pagina, senza pretendere di voler comunicare o nascondere messaggi profondi e stratificati, ma con il solo scopo di descrivere, informare, intrattenere.
A tal proposito, non sarebbe forse il caso di lasciare al lettore la possibilità di scegliere di addentarsi in una storia avvincente, dal ritmo incalzante, ricca di colpi di scena e personaggi ben costruiti, narrata in modo semplice, scorrevole, lineare (se questo era l’intento con cui si è avvicinato/a allo scaffale della libreria)?
Sulla base di questi presupposti, la critica di L. B. ed E. T. risulta a dir poco fuori luogo, in quanto svilisce l’opera di Larsson attribuendole pretese che forse nemmeno lo scrittore stesso ha avuto (o tantomeno espresso) e spacciando opinioni del tutto personali come difetti strutturali- stilistici oggettivi dei romanzi.

sabato 26 settembre 2009

Thinking about my fairy...

Stava immobile sulla spiaggia, scrutando l’orizzonte. Non cercava con lo sguardo le sagome delle navi che apparivano di tanto in tanto in lontananza, di passaggio verso approdi che erano Altrove. E nemmeno seguiva il volo dei gabbiani, che si agitavano in stormi sulle increspature delle onde infrante dalla scogliera. Fissava invece il movimento delle nuvole cambiare ad ogni capriccio del vento, che le coglieva di sorpresa sospingendole in direzioni imprevedibili.
Riflettendo gli ultimi raggi del sole con il suo guscio lucido –ora sfavillante- la piccola conchiglia aspettava. Dura, impenetrabile in superficie, persino solida all’apparenza, abituata a sfidare i flussi e riflussi delle maree e ad esserne levigata, modellata, corrosa, resisteva imperterrita nel proteggere la fragile vita che si agitava dentro di lei, custode vigile del lento, impercettibile lavorio prezioso del suo grembo.
Eppure sarebbe bastato un nonnulla a ridurla in frantumi, rendendo vano il suo essere, il mondo e il motivo per cui aveva ragione di esistere: un passo incauto o volutamente crudele e la prima onda giunta a lambire la riva ne avrebbe disperso irrimediabilmente i frammenti.
Ma la piccola conchiglia restava lì, immobile, scrutando l’orizzonte e osservando il cielo poiché le nuvole, raccogliendo i sospiri del vento, le affidavano un messaggio da custodire gelosamente e poi trasmettere a quell’animo sognante che l’avesse colta e posata all’orecchio…

giovedì 24 settembre 2009

“Le storie sono sempre vere. Sono i fatti che vengono fraintesi”.(Jeanette Winterson)

Mettere nero su bianco le proprie storie…una scommessa rischiosa, un atto di coraggio. Catturare con le parole frammenti sconclusionati di pensieri, dar loro una forma, seguire un filo…e lasciarsi condurre ad una meta imprevedibile. Una sfida per chi scrive, non tanto per la paura dei giudizi, quanto piuttosto per la consapevolezza di avere aperto una finestra sulla propria realtà, sottoponendola così allo sguardo di altre realtà che se ne appropriano, investendola di significati incontrollabili. Ma proprio per questo anche un atto coraggioso, perché da vita a nuovi mondi…